Temperamente su "La Nave del destino" di Marco Mazzanti
Destino
è, per me, tra le parole con maggior potere evocativo.
Asia, invece, è un nome
femminile che mi trasmette un senso di vastità e immensità. I
presupposti con cui mi accingevo a leggere il romanzo erano dunque
positivi, idea che non è venuta mai meno.
Siamo ancora una
volta intorno all’anno Mille, nelle terre dell’antica Grecia. Asia,
figlia di donna Syitane e Dmtrj (albino),
vive per anni al riparo in un burqa,
per nascondere una bellezza così
prepotente che avrebbe
reso folle chiunque; non disdegna però questa sua condizione, pur
dovendo prestare particolare attenzione alla curiosità altrui.
Un giorno la sua sicurezza viene
turbata da un incontro improvviso, che non sarà casuale.
Ma quando la sua vita sembra
aver finalmente intrapreso la strada giusta, il suo destino irrompe
e acquistano significato tutte le strane visioni oniriche che per anni
avevano reso inquieto il sonno di sua madre. I fili, abilmente
intrecciati, si dipanano per condurre ad un esito lieto, come ci si
augurava, con passaggi sorprendenti.
La scrittura di
Marco Mazzanti è cromatica,
precisa nelle sfumature dei colori che sembrano rappresentare l’essenza
stessa dei personaggi. Non è nuova, infatti, la presenza di figure dalla
carnagione albina, quasi evanescenti, le cui movenze e i cui riflessi
paiono inafferrabili, quasi creature intangibili. E tutto ciò favorisce
un’atmosfera inconsueta, di
tempi remoti mai conosciuti, ma così familiari, una sensazione di
leggerezza eterea che sa farsi concreta.
Efficaci i rimandi
a “L’uomo che dipingeva
coi coltelli” non solo a livello linguistico, ma anche contestuale.
La tecnica narrativa è quella di mosaico: tante tessere che si
incastrano per ricostruire un progetto iniziale volutamente fatto in
frantumi, per accompagnare poi il lettore nella sua ricomposizione.
Susanna Maria de
Candia
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